Egle

Egle

Egle abitava vicino a noi, nella casa di fronte.
Ma le finestre di casa mia in realtà affacciavano sul retro della sua. Le case, le stanze dedicate alla residenza, venivano esposte al sole, perciò vedevo solo il pollaio ed il deposito della legna.
Era più grande di me, aveva tre fratelli e lei era la maggiore.
I suoi erano impresari edili nel tempo in cui le case si facevano ancora tutte, dalle fondamenta al tetto, di mattoni, di argilla, quella rossa, che invecchiando scuriva.
Non avevano costruito la nostra, opera di altro muratore, un signore con enormi baffi bianchi e che si univano un pizzetto folto. Tanti anni dopo, quando ero già un giovanotto fatto e finito, lo avevo rivisto in un quadro, appeso nel salotto della figlia, mia maestra delle elementari.
Come sarebbe capitato e come è capitato un milione di altre volte ad altri bambini, mi persi negli occhi e fra le lentiggini di Egle. Non sapevo perché, ma tremavo alla sola idea di incontrarla e se sapevo che l’avrei vista, prima mi pettinavo sempre. Mio fratello Nando aveva capito, ma non mi prendeva in giro come facevano gli altri.
“Nuto, è più grande di te. Ma tu voglile bene uguale, sarà per sempre, questo ti insegnerà tante cose”.
Sapevo tutto di lei, ascoltando, origliando le chiacchere fatte dalle madri sul bordo dei rispettivi orti.
Sono certo che anche lei avesse capito quella confusione che portavo dentro. Quando stringeva gli occhi e serrava le labbra era seria, non scherzava; in uno di questi momenti, Egle, un giorno, mi disse:
“Nuto, ti voglio bene, ricordalo sempre”.
Si era avvicinata, ma vicina, e mi aveva tirato indietro il ciuffo, con un gesto che neanche mia madre. Mi erano tremate le ginocchia e la gola si era chiusa.
Ogni tanto con la bici andavo ad aspettarla alla fermata della corriera, che la riportava a casa da scuola; poi ritornavamo insieme, io spingendo la bici su cui aveva appoggiato la sporta dei libri, lei raccontando le ultime disavventure geometriche o roba del genere, che io non capivo.
Avrebbe studiato, il padre Sergio aveva bisogno di chi tenesse i conti in famiglia. Di lì a qualche anno sarebbe partita per il colegio e non ci vedemmo più per lunghi periodi. Frequentò una specie di ragioneria, dove aveva imparato anche a stenografare. Non divenne la contabile di casa ma la segretaria di un avvocato del posto, famoso e ricco.
Egle sorrideva sempre e correva in quel vestito azzurro con i fiorellini rossi.
Un paio di sandali di cuio, buoni dalla primavera all’autunno, e, solo quando giocava, i capelli legati coda di cavallo.
La famiglia così numerosa, in casa abitavano ancora gli anziani e un paio di zie in età da marito giunte da poco dalla Sicilia, le permetteva di assentarsi, scappare, senza troppe domande e ricerche.
Anche di sera. Quando aveva voglia di fare un giro per le case della borgata, nel mezzo della notte in quelle giornate di lunga calura, mi tirava piccole ghiaie contro le imposte della mia camera, per svegliarmi.
“Scendi, Nuto, porca miseria vacca, so che sei lì dietro alla persiana, sei un fifone mai visto”.
Egle, quando voleva era sboccata come un maschio. Anzi, anche peggio. Mia madre diceva che in casa sua c’erano troppi maschi, che era per quello.
Ero proprio li, e fra le stecche della persiana, illuminata dal sereno della notte, la vedevo che scalciava annoiata il selciato e mi parlava.
“Egle, i miei mi flinano se scoprono che esco di notte, restassi in cortile ma vado in giro”
“Smettila e scendi, se continui a bisbigliare svegli tutti i tuoi. Muoviti piuttosto”
Scendevo, tremando perché dovevo attraversare la camera dove domivano i nonni, certo di una fine a suon di sberle.
Lei impazziva per le lucciole.
Perciò andavamo alla fontana di acqua solforosa nella valle e lì ballavamo in mezzo al loro volare e ci spruzzavamo con l’acqua, saremmo asciugati correndo a casa.
Te ne ricordi?
Ero piccolo e tu parlavi, gesticolavi, facevi i versi, i capelli ti scappavano dalla coda, arrossivi per tutta questa fatica.
Tu mi mostravi tante di quelle cose, che io non conoscevo perché non le vedevo.
L’aria che danza sopra i campi di grano tagliato, la nebbia del mattino che esce dalle zolle del campo.
Andavamo a sentire l’odore della terra e del bosco quando pioveva, mangiavamo la neve per vedere se era buona.
Oppure salivamo nel granaio, il tuo posto preferito, e ci stendevamo sui sacchi di juta, pieni e addossati uno all’altro.
“Guarda, siamo in mezzo al mare, è la nostra nave, guarda passare il cielo sopra le nostre teste”.
“Stiamo andando in fretta, molto in fretta, Egle”.
“Vedi quella terra lontana? Nuto, è il regno di Zora, la principessa delle Due Terre, è amica amica e non correremo nessun pericolo”
A me sembrava di vederla quell’isola e mi immaginavo anche tutto il resto, anche la regina Zora.
Ti ricordi, Egle?
Ti arrampicavi sulla piante di ciliegie dietro casa mia, come una scimmietta, e stavamo appesi ai rami per un intero pomeriggio e tu non smettevi di mangiarle, neanche per un minuto.
Quando mangiavi tanto ti venivano le lacrime agli occhi e ti colava il naso, come se ti fosse venuto il raffreddore. Mi facevi ridere quando eri così.
Al tuo matrimonio tutti pensavano fossi emozionata, solo io sapevo la verità.
E quando il vecchio Pietro ci ha fatto salire sul suo carro per andare al mercato, a vendere patate e granoturco? Siamo tornati di notte. Pioveva. Eravamo rifugiati sotto il telone, in mezzo alle patate. L’acqua colava sopra le nostre teste e tu mi dicevi che intorno c’era il pericolo, che stavamo attraversando la Selva Nera, che avremmo dovuto continuare per giorni. Io avevo così paura e senza dirti niente sollevavo ogni tanto un angolo della tela per vedere se c’era ancora il vecchio Pietro o se il vento se l’era portato via.
E quella sera in cui i contadini avevano acceso un grande fuoco di foglie di granoturco, in mezzo al campo di Aurelio?
Ti ricordi, Egle?
“Vieni a vederlo con me?”
Quell’invito era la prova che ero speciale per te. L’invito a vedere il falò di notte non è cosa da poco. Potevi andare con uno di quei mosconi che ti giravano sempre intorno, con quell’aria sbruffona e la prima barba da fare. Invece eri venuta da me.
Ricordi?
Camminavamo nella foschia per raggiungere quel fuoco rosso e blu, e tu mi dicevi che era bello. Vedevo le tue ballerine e le streghe disegnate dal fumo denso.
Io vedevo tutto quello che dicevi. Quando sei partita, per il collegio e la scuola, ho continuato da solo, sai Egle?
Ho cercato di vedere le cose che gli altri non vedevano più.
Tu mi hai insegnato a camminare fra le case, ma a tenere lo sguardo alto, curioso. Ad osservare le persone, ai loro gesti, a come erano vestite. Ad amare gli animali ed il loro amore incondizionato e irragionevole, come quello di un bambino.
E poi c’era una promessa. Sì, te ne ricordi.
È stato il giorno prima del tuo matrimonio. Nelle uscite serali dal Collegio avevi comnosciuto, Peter, faceva il meccanico ed era figlio di uno sfollato veneto. Avevamo fatto subito amicizia, era forte come una quercia, e sorrideva sempre, come te, ma aveva più denti.
Era una giornata come oggi. Ogni volta che tira vento, ci ripenso. Tu, Egle, parlavi con mio fratello ed eri contenta. Mi hai tenuto al tuo fianco, stringendomi a te, avvicinandoti, per mostrarmi le nuvole che si rincorrevano attraverso il lucernario.
Ci hai baciati tutti e due e Peter ha detto:
“Vedrai moglie mia, diventerò molto ricco, molto forte. Molto grande per te, per renderti felice”
Tu lo abbracciasti. Allora io ho domandato: “E io?”.
Tu hai riso, ricordi, e mi hai abbracciato, stringendomi forte che sentivo il profumo dei tuoi capelli e mi hai detto:
“E a te, piccolo mio, io riempirò le braccia della mia felicità”.
Io ero felice, tanto felice.

“Signor Benvenuto, venga, l’orario di visita è terminato da un po’. Lei si è addormentato e mi sembrava una cosa, svegliarla”
L’infermiera aveva posato la mano sulla spalla. Per un attimo avevo pensato, sperato, fosse Egle.
No, lei era immobile, davanti a me. I capelli bianchi raccolti in una piccola crocchia e le labbra serrate in un abbozzo di sorriso.
Egle stava pensando a una cosa seria, come sempre.
Il quadro dei controlli lampeggiava, muto come muta era la vita di Egle ormai da mesi.
“Ritorno domani, Egle. E ti racconto di nuovo quando sono scappato da casa, per venire al collegio a trovarti”.

sun-in-an-empty-room1923

Edward Hopper Sun in a Empty Room, 1963

Don Nino

Don Nino

Ho scritto questo racconto senza pretesa alcuna.
Ho incollato pezzi di tante cose di me: persone, ricordi, immagini, parole, senza nessuna strategia e modellistica narrativa.
Borges diceva: “Uno scrittore deve abbandonarsi al piacere di sognare, di scrivere; anche se ciò fosse imprudente. Però chissà che la massima felicità non sia la lettura.”
Ecco, dopo essere stato veramente imprudente, ritornerò a leggere.
Voi portate pazienza.

 

Era un caldo impossibile, mai come quest’anno.
Anche i contadini costumati ai lavori al sole, ora sudavano all’ombra, vicino al fresco che veniva su dal pozzo.
Senza timore della malalingua del vicino, si andava tardi nei campi, per quel poco che c’era ancora da fare prima della vendemmia.
Il padrone non se ne aveva a male con noi mezzadri, sapeva che quando sarebbe stato il momento non ci saremmo tirati indietro.
Alla sera si andava a ballare in qualche festa, su una collina, in onore di qualche santo.
Il paese intero sembrava sonnecchiare; i rumori per le vie, rari, erano rotti solo dallo schiamazzo dei bambini.
Neanche la polvere si alzava dal selciato di ghiaia e terra.
Tutto immobile.
In quei giorni arrivò Nino, un po’ inaspettato.
Ci aveva sempre scritto che sarebbe tornato a salutarci, me e la zia, che ci voleva bene.
Io sapevo che fino a quando il seminario non gli avesse messo addosso il vestito da prete, quello con i bottoni rossi, sarebbe stato difficile rivederlo.
Volevano essere sicuri di strani ripensamenti nella vocazione.
Ma adesso era lì, Nino stava camminando davanti a me sul sentiero, quasi saltellando sui piedi, come faceva sempre lui.
Lì dove la strada curva, che poi sale alle vigne, si ferma e guarda il rio sotto.
Era piccolo quando un giorno si fermò lì a guardare un fiore, blu. Lo punge una vespa.
Ma Nino non piange, no davvero, ma tutto serio dice, fregandosi il braccio:
“Quando tu sarai Nino e io vespa, anche io ti pungerò!”
L’ho cresciuto io, Nino.
Suo padre, mio fratello, tornato malato dalla guerra, è morto pochi mesi dopo.
Sua madre l’abbiamo dovuta portare all’ospedale, l’anno dopo. Quando è morta, ho preso Nino con me.
Noi non avevamo avuto la fortuna di avere un culla per casa. Allora il Signore, nella disgrazia, mi aveva portato sull’uscio di casa quel ragazzo, i capelli neri di suo padre e le lentiggini della madre.
Prima era sempre con me, poi è andato a scuola.
Un giorno Don Piero mi ha chiamato: che portassi Giovanni al collegio, dai preti.
Nino diceva no, che non voleva, che sarebbe scappato tutti i giorni, che voleva diventare contadino come me e fare anche il soldato come papà.
Neanch’io volevo portarlo laggiù, ma poi ho avuto paura di non pensare solo al suo bene, di farlo per me, per tenermelo vicino.
Maria piangeva e con gli occhi mi chiedeva di tenerlo a casa.
Avevo chiesto consiglio anche al nostro padrone, una domenica che era salito in paese.
Era vero quello che diceva Don Piero? E lui mi aveva risposto:
Quale vita può essere meglio di quella spesa al servizio di Dio?
E poi al collegio avrebbe avuto di sicuro da mangiare tutti i giorni, avrebbe dormito al caldo, sarebbe tornato casa coi bottoni rossi sul vestito da prete.
Non gli sarebbe mancato nulla.
Aveva forse ragione. Non come a casa con la zia che quando mancava una cosa diceva:
“Non hai che da comperare!”
Poi quando sentiva il prezzo si spaventava e non voleva comperare più nulla.
Così l’ho portato.
Gli ho detto che andavamo a trovare lo zio Aurelio e lui era partito senza sospetti e durante il viaggio saltellava, guardava e commentava tutto.
Come sempre.
Il collegio era grande e tutto bianco, le camere con due letti, avrebbe avuto un amico.
Davanti c’era un cortile per i giochi, un campo da calcio, che era piaciuto tanto a Nino.
Ma quando al momento di partire, gli ho detto che lui doveva restare, mi ha guardato smarrito, la zia piangeva nel fazzoletto, si è buttato per terra, mi diceva di no.
Me lo volevo riprendere il mio Nino, lo riportavo a casa con me e con la zia.
Avrebbe fatto il contadino e avremmo tirato avanti lo stesso.
Ma Don Piero ha accompagnato la zia al portone, a me ha detto che era peccato portare via un servo dalla casa di Dio.
Forse era un peccato lasciarlo lì, fra quei muri bianchi come l’ospedale dove era morta sua madre. Bestemmiai, per vendetta.
Dopo sei mesi, Nino ha scritto la sua prima lettera, con quelle O così grosse e diceva che stava bene.
Però io sono uscito e sono andato a piangere nel granaio.
La vita era stata dura, le annate erano state un seguito di imprevisti e malanni, a noi e alla campagna. Ma ora stavamo bene, non mancava nulla e il prezzo della roba non ci spaventava più.
Eravamo soli, questo si. Ma oggi è venuto a trovarci.
Sono passati dieci anni da quando l’avevo lasciato in collegio.
Ci siamo seduti fuori, per il caldo.
Maria aveva spostato la panca sotto il prugno e avava messo dei cuscini per rendere la seduta meno scomoda, un tavolino con una bottiglia di acqua fresca e i bicchieri del corredo con le foglie di menta.
Per un po’ Nino è stato zitto, giocava coi bottoni rossi del vestito.
Io l’ho guardato tanto, mi sembrava diverso, ma poi quando ha cominciato a parlare è diventato quello di una volta.
Nino rideva con tutti i denti, ancora, e quelle lentiggini sembravano corrergli sul viso.
I capelli erano corti ma neri e duri come il fil di ferro.
Adesso portava gli occhiali, ma con la montatura fine, rotonda.
“Zia, siete mai andata al cinematografo? Dovreste prendervi qualche svago”.
A me veniva da ridere, lui così serio e lei, rossa come una mela renetta.
Maria non piangeva più e ad Attilio della bottega raccontava di suo figlio, che stava per diventare prete.
Suo figlio.
E poi Nino, a me ha chiesto se non avevo mai visto una partita di pallone, a me.
Poi mi ha raccontato delle sue partite in collegio, dove facevano le squadre ed una era sempre del Torino e giocavano anche con il vestito lungo ma non potevano cadere.
Ma proprio quello che non potevo aspettarmi è capitato al momento della partenza.
Ci eravamo già salutati, ma lui, quando è stato a metà della scala di casa, si è girato, mi ha guardato è ritornato su e mi ha dato un bacio.
A me.
Poi sono andato con Maria sul balcone e l’ho guardato ancora mentre andava via.
Forse non l’avrei più rivisto, Nino.
Maria voleva vedere quando lo consacravano oppure a una sua messa.
Avrebbe finito il liceo e sarebbe diventato prete, chissà il clero dove l’avrebbero mandato. Magari lontano.
Nino scrisse sempre, una volta al mese.
Erano lettere lunghe e Maria che era più brava a leggere me le spiegava anche. Io riuscivo a immaginare sempre tutto, come se lo vedessi.
Una volta mandò anche una foto, era insieme agli amici del ginnasio e beveva a una fontana, in montagna.
Lei la consumò quella fotografia. La mise nella vetrinetta appoggiata ai bicchieri e non c’era volta che passando non girasse lo sguardo.
Nino era tutto. Diceva Maria, era la vita che non si consumava su quella collina. Lui avrebbe visto il mondo.
Era una testa fine, dicevano di lui.
Finito il liceo chiese di poter seguire i corsi di Fisica. La cosa non fu gradita, ci disse in una lettera.
Il rettore era arrabbiato, non aveva detto di no ma gli aveva fatto capire a chiare lettere che ci sarebbero state delle conseguenze.
Nino si consacrò in Cattedrale e zia Maria andò a vederlo, prese la littorina insieme a Don Piero.
Io no, dissi che non potevamo lasciar casa sguarnita. Ma non era vero, non avevo il coraggio.
L’avrei perso quel giorno, non sarebbe più stato mio. Arruolato nell’esercito di Cristo. Maria mi raccontò che c’era tanta gente e che era tanto il fumo dell’incenso che tutti tossirono anche finita la messa.
Nino per la prima volta ci scrisse dopo alcuni mesi.
Era stato mandato a fare il parroco in un piccolo paese, di contadini, gnucchi come noi. Era stato mandato lì a sostituire un Monsignore che era morto da poco.
Nino ci disse che la canonica era fredda ed umida e la chiesa cadeva a pezzi. Era stato mandato lì per punizione, per aver osato studiare roba che era già spiegata dalla Bibbia.
Disse che stava bene e che la gente gli volva bene e che era ritornata a messa, che c’erano tanti ragazzi e bambini.
Maria invecchiava, io anche.
Ci mancavano le forze per lavorare la terra e i mezzadri, si sa, devono rendere.
Il nostro padrone era un avvocato, un signore. Veniva dalla città, ogni tanto, a trovarci e a prender conto. Arrivava con l’Anglia e la buttava all’ombra e andava a piedi.
Lo vedevamo arrivare, quando se ne veniva a piedi dal paese, con quei suoi lunghi passi, un po’ sghembi, le mani dietro la schiena, l’aria fra il curioso e l’indifferente, il sorriso sempre furbo.
Un vecchio paio di scarponi da montagna, ci ballavano dentro i suoi i garretti nudi, impolverati. Ed un unico cappello, senza forma, ammaccato, dal colore indefinibile, fra il marrone ed il grigio, il colore della fanga.
Capitava di trovarlo quando tornava dalle vigne, che fumava dal sudore della fatica, una borsa in spalla. Dalle tasche ne uscivano due fichi, un caco o delle castagne e me le offriva con quella sua ruvida galanteria, quando ci sedevamo sulla capezzagna, a vedere la valle sotto.
Ci voleva bene, voleva bene a Nino. Neanche lui aveva avuto figli. Sapemmo che fu lui, facendosi passare per un lontano zio, a pagargli il vitto, l’alloggio e l’università, lasciando una bella mancia al Rettore.
Non aveva nessuno che si prendesse cura di lui. C’era stata una sorella, ma vecchie questioni di eredità ne avevano separato i patrimoni ed anche le vite. Dicono che ci fosse stata una donna, giovane ed innamorata, ma alla fine lei aveva scelto di andare. Altri dicono che morì di tifo.
Smise di fare l’avvocato e tornò, da solo, nella vecchia casa padronale, con i sacchi di grano e gli attrezzi nelle stanze del piano terreno.
Un’infilata di sale e salette, con la tappezzeria macchiata d’umidità. C’era odore di chiuso. Se cercavi di aprire una persiana, il legno scricchiolava, ballavano le stecche, sembravano voler saltare via. Piena di polvere, una madia portava bricchi da caffè, teiere, piatti, tutti appannati, grigi. Ma erano d’argento inglese, bellissimi.
Pretendeva che si lavorasse la terra come avevano fatto suo padre e suo nonno e anche prima.
Mangiava come capitava, buttandosi a dormire, magari vestito, per il freddo o aspettando una levataccia o il parto nella stalla. Sempre pronto, dopo una giornata passata a sfangare fra le vigne e una serata in paese, fra amici, all’oratorio a giocare a carte.
Fausto, così si chiamava, era solitario di pensiero ma ovunque vi fosse compagnia.
Una domenica mattino mi chiamarono, mentre ero a messa.
Il capino da uccello pareva più scheletrito, secco e quel livido sulla fronte se l’era procurato battendo contro lo spigolo del tavolo dello studio.
Una morte fulminea ma misericordiosa aveva portato via il mio padrone, il vecchio avvocato dal nome strano.
Nino tornò per dir la messa della sepoltura e pianse durante l’omelia.
Ci raccontò, a cena, delle sue visite in seminario e delle passeggiate di domenica, per le piazze della città, delle chiacchiere e delle lunghe discussioni sulla fisica e su Dio.
Raccontava del nostro lavoro, di noi, del paese.
“Sapevo tutto” disse Nino.
Dopo poche settimane arrivò una lettera del notaio, ci convocava.
Nel testamento, l’avvocato nominava eredi universali me e Maria, a condizione che vendessimo tutto nel giro di un anno e che ci trasferissimo da Nino. Maria avrebbe fatto la perpetua e io gli avrei tenuto l’orto, diceva.
Mi sentivo morire a lasciar quella terra ma facemmo come detto e ce ne andammo.
Caricai tutto il mobilio, tutta la nostra vita sul camion e partimmo un lunedì mattina. Lei piangeva e rideva che sembrava una bambina, sembrava matta. Ero felice per lei, mi veniva il cuore in gola.
La vita le restiuiva Nino.
Il suo Nino.

IMG_0617

Vino e lingua. Al Forteto della Luja (Loazzolo – Asti), nell’ambito del Fuori Festival di Classico, si parla di dialoghi e linguaggi contemporanei

copertina-per-sdp

Per la seconda volta il Forteto della Luja, l’azienda vinicola di Loazzolo (Asti), consotta dalla famiglia Scaglione, nel cuore della zona di produzione del Loazzolo doc, vendemmia tardiva a base moscato, la più piccola doc d’Italia con un pugno di produttori compresi in meno di 6 ettari, ospita una tappa autunnale del Fuori Festival di Classico, la rassegna dedicata alla lingua italiana, di cui è direttore artistico lo scrittore e autore radiofonico Marco Drago, che si fa a Canelli e in alcuni paesi vicini. Lo scorso anno si parlò di Umberto Eco con testimonianze e video. Quest’anno l’appuntamento è per il 7 e 8 ottobre. Un gruppo di linguisti e semiologi parlerà su come si è modificato il dialogo e il linguaggio oggi.
Qui di seguito il programma degli incontri che si terranno a due passi dall’oasi del WWF che ha al centro la cascina del Forteto della Luja a cui seguiranno degustazioni dei vini del Forteto e di prodotti tipici.

Sabato 7 e domenica 8 ottobre a Loazzolo (Asti) torna il Fuori festival di Classico 2017 

Al Forteto della Luja si parla di dialogo e linguaggi della contemporaneità. In programma quattro mini-convegni, validi anche come corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole secondarie

Il gergo dei giovani è davvero una lingua a sé? In che modo dialoga la Chiesa oggi, con i propri fedeli, con le altre confessioni e le altre religioni? Tutti i giorni, tutto il giorno, stiamo sui social e parliamo, scriviamo, commentiamo, rispondiamo: gusto della convivialità o spietata caccia al like? Quando sembriamo non dire nulla – perché non possiamo, non vogliamo o non sappiamo cosa dire – cosa diciamo in realtà?

Sono questi alcuni dei quesiti traccia al centro di una due giorni intitolata “Dialogo e Linguaggi della Contemporaneità” inserita nel programma Fuori Festival di Classico, la rassegna dedicata alla lingua italiana omaggio al linguista canellese Giambattista Giuliani, che ha la sua terra d’elezione a Canelli, ma che propone eventi anche nei centri vicini.

E, infatti, la due giorni in questione si terrà il 7 e 8 ottobre a Loazzolo, paese agricolo sulla Langa Astigiana, a due passi da Canelli, nello splendido scenario del Forteto della Luja, l’azienda vitinicola condotta dalla famiglia Scaglione, al centro di una splendida oasi naturale del WWF che comprende oltre 100 ettari di boschi.

Previsti quattro eventi ideati, organizzati e condotti in accordo con cinque studiosi di settore: Gabriele Marino (semiologo), Ilaria Fiorentini, Caterina Mauri, Emanuele Miola (linguisti) e Simona Santacroce (secentista e studiosa delle religioni). Tutti gli interventi saranno incentrati sui diversi valori e sulle diverse forme del dialogo nella contemporaneità.

I quattro eventi sono stati inseriti nel programma dei corsi di aggiornamento per insegnati: la partecipazione, infatti, dà diritto a crediti formativi per tutti i docenti della Scuola Secondaria di Primo e Secondo grado.

Al termine di ciascuna relazione è previsto un aperitivo con prodotti di Langa e la degustazione dei vini del Forteto della Luja.

Qui di seguito il programma in dettaglio.

SABATO 7 OTTOBRE – DALLE 17.00 ALLE 19.00

Emanuele Miola

Parlare tra generazioni. Il giovanilese è davvero una lingua diversa?

La “lingua dei giovani” è davvero incomprensibile e sgrammaticata, e quindi peggiore di quella che gli adulti parlano tutti i giorni o che si parlava cinquant’anni fa? Quei tecnicismi barbari che fanno rabbrividire genitori e insegnanti, quei simboli incomprensibili, quell’ortografia in libertà con cui i ragazzi comunicano su Internet e nei social network indicano davvero il declino dell’italiano? E quali sono i fenomeni sociali e psicologici che fanno sì che il modo di esprimersi cambi senza che le persone smettano di comprendersi? La lingua non è un oggetto unico e cristallizzato, ma un continuum di varietà, ordinate dal punto di vista sociale, i cui costanti e diseguali sommovimenti si spiegano nella dialettica tra errore, innovazione, uso e pertinenza.

Simona Santacroce
Il popolo di Dio in dialogo. Quali lingue per la Chiesa oggi?
“Quale lingua, quale liturgia e per quale chiesa?”. È questa una domanda su cui la cristianità si interroga da secoli. Nel XX secolo il Concilio Vaticano II sembra porre fine alla questione, almeno per la Chiesa cattolica. Ma è proprio così? Il latino è diventato davvero lingua morta anche per la chiesa? E come rispondere alle esigenze di vecchie e nuove comunità che vogliono parlare a Dio nella propria lingua, che sia lingua di immigrazione o dialetto? Anche oggi, come fu secoli fa, la lingua della Chiesa può diventare seme di discordia per i popoli di Dio, ma soprattutto oggi, può diventare occasione di vero dialogo interculturale.

DOMENICA 8 OTTOBRE – DALLE 11.00 ALLE 13.30

Gabriele Marino

È #virale. Quali sono le forme della convivialità online?

Cos’hanno in comune hashtag, faccine, video “che hanno commosso il Web”, la gif di John Travolta confuso, il Generatore automatico di post di Salvini, la bufala del ministro Kyenge che vuol dare in pasto i gattini italiani agli immigrati, il parrucchino di Donald Trump? Niente e tutto: sono le cose di cui parliamo – anzi, le cose che parliamo – quando siamo online. Stiamo online non solo e non tanto per scambiarci informazioni o contenuti, quanto piuttosto per dirci gli uni gli altri che ci siamo, che esistiamo, stiamo online per contarcela, per perdere tempo, assieme, ciascuno a suo modo, disegnando comunità effimere e fortissime. Gli studiosi la chiamano componente fàtica della comunicazione: come quando al telefono annuiamo con un mugugno per far capire all’interlocutore che lo stiamo ascoltando. Nel cortile globale delle bacheche social si dialoga, si sta assieme e si diventa comunità anche solo commentando La stessa foto di Toto Cutugno ogni giorno.

Ilaria Fiorentini e Caterina Mauri

Eccetera eccetera. Che cosa diciamo quando non diciamo niente?

Tra le espressioni che utilizziamo quando vogliamo evitare di dire qualcosa, eccetera è probabilmente la più diffusa. Le sue funzioni sono molteplici: può servire a troncare una lunga citazione; può essere inserito alla fine di un elenco; può alludere a una conoscenza condivisa da entrambi gli interlocutori; infine, può sostituire una o più parole ritenute sconvenienti. Eccetera è un segnale che rimanda esplicitamente all’implicito, al non detto, attraverso il quale colmiamo dei silenzi che sono assenze di forme, ma non di significato. In letteratura come nella lingua di tutti i giorni, nel parlato e nello scritto, eccetera ci aiuta a dire molto, permettendoci di non dire niente.

Sapori del Piemonte – FILIPPO LARGANA’ (leggi qui)

Sulle esperienze di studio all’estero

AFS

Accueillir un jeune issu des cinq continents sous votre toit est une expérience unique riche en émotions. Voici 5 bonnes raisons qui vous décideront :

1. Ouvrez-vous au monde. Être famille d’accueil, c’est découvrir la culture d’un jeune venu d’un pays étranger. Chacun apprend et se nourrit de la culture de l’autre. Un bon moyen d’élargir votre horizon par-delà les frontières.

2. Partagez votre culture. Les lycéens accueillis sont avides de découvertes. Ils veulent apprendre notre langue et comprendre notre culture. À travers leur regard, vous redécouvrez la France et son patrimoine.

3. Devenez une famille internationale. Une relation unique se crée entre vous et le jeune que vous accueillez. Les liens d’amitié qui naissent avec AFS durent souvent toute la vie. D’innombrables possibilités de rencontres et d’échanges en France et dans le monde s’ouvrent à vous.

4. Intégrez une association reconnue. L’accueil bénévole est un principe hérité des fondateurs d’AFS et mis en pratique par plus de 200 000 familles depuis plus de 65 ans. Accompagnés par un réseau de bénévoles expérimentés, vous êtes suivis tout au long de cette aventure.

5. Oeuvrez pour un monde meilleur. En devenant famille d’accueil, vous adhérez aux valeurs de respect et de tolérance. À travers l’organisation d’échanges internationaux à caractère éducatif et interculturel, vous contribuez concrètement à la construction d’un monde plus pacifique.

5 bonnes raisons d’accueillir un lycéen étranger avec AFS

La ragioni del mio voto

Il 4 dicembre finalmente si compirà il percorso di riforma costituzionale, iniziato più di due anni e mezzo fa.
Da cittadino interessato alla politica ed al futuro del Paese, ho assistito al percorso istituzionale e politico che qui ci ha condotto.

Con disagio, ho vissuto il dibattito che, negli ultimi mesi, ha avviluppato ogni cosa. È da subito scomparsa ogni analisi e riflessione sulle ragioni e sulla portata della riforma; il confronto fra le parti contrapposte è stato contrassegnato da una crescente guerriglia mediatica, combattuta da neo costituzionalisti e infervorati facinorosi. La confusione è via a via aumentata, soprattutto a discapito di chi, rivolgendosi ai mezzi di informazione tradizionali o nuovi, non tollera più il confronto urlato e, perciò, confinandolo nel disinteresse o nell’indecisione.

Premesso che non ritengo il cambiamento un valore di per se stesso come non amo il fideismo della “Costituzione più bella del mondo”, proverò a riassumere, senza presunzione alcuna, alcune delle ragioni del mio voto, del perché voterò SI.

La revisione della Carta Costituzionale riguarderà circa trenta articoli della II Parte, che riguardano l’ordinamento della Repubblica. Una riforma profonda ma che certo non darà vita ad una nuova Costituzione: rimane inalterata la I Parte, quella dei diritti fondamentali; la forma di Governo rimarrà parlamentare perciò dovrà pur sempre avere la fiducia dalla camera eletta dai cittadini;  rimane ferma la distinzione fra Poteri, inalterata l’autonomia della Magistratura.

Una riforma che ha due indirizzi principali, a mio modo di vedere, molto apprezzabili. Il primo, sta nella trasformazione del bicameralismo paritario oggi in essere (due Camere con le medesime funzioni) attuato con la trasformazione del Senato in organo di rappresentanza degli territoriali ossia Regioni e Comuni (le provincie, in virtù della riforma, dovrebbero cessare). Il secondo, sta nella nuova distribuzione delle competenze legislative, con un aumento sostanziale delle competenze attribuite in via esclusiva allo Stato centrale, passaggio rafforzato dall’introduzione della clausola di tutela dell’interesse nazionale (che riserva allo Stato la possibilità di operare anche quando la competenza è della Regione).

La riforma del processo legislativo non rappresenta un valore marginale, seppur sempre più taciuto nel dibattito. I Centri Studi di Camera e Senato, in ordine ai tempi di elaborazione legislativa, tanto di questa come della precedente legislatura, rilasciano dati sconfortanti. La riforma mi pare possa, finalmente, consegnarci un Parlamento efficiente ed efficace, ben sapendo che la qualità delle politiche sarà rimessa alle menti dei nostri rappresentanti e su questo sarà opportuno, molto presto, aprire altro tipo di riflessioni. La ripartizione delle funzioni legislative fra Stato e Regioni e il l’iter legislativo così come configurato dai novellati art. 70 e seguenti, mi pare di buon equilibrio e garanzia, consegnando al nuovo Senato un ruolo sovente determinante e, perciò, di buona prospettiva per eliminare discrasie normative all’interno del suolo italico, che non riescono ad essere armonizzate dalla Conferenza Stato e Regioni e sovente vengono affidate alla Corte Costituzionale nel giudizio di conflitto di attribuzione, con conseguenze non irrilevanti per la vita del Paese.

Anche altre modifiche determinano la portata e l’importanza della riforma che andremo ad approvare. Penso al controllo preventivo della legge elettorale da parte della Corte Costituzionali ma anche all’abbassamento de quorum referendario abrogativo allorquando vengano raccolte ottocentomila firme (il che dovrebbe disincentivare la poco democratica pratica della dissuasione al voto). Si garantirà in miglior modo la proposizione legislativa popolare: certo, aumentano il numero di firme necessarie per far approdare la proposta in Parlamento, ma dando certezza della discussione e della deliberazione. Mi pare di ulteriore garanzia istituzionale che cinque giudici costituzionali vengano eletti da Camera e Senato. In tutta sincerità, non mi pare una forzatura alla democrazia il meccanismo del “voto a data certa” ossia la corsia preferenziale concessa al Governo per l’approvazione di un disegno di legge, non qualsiasi, ma essenziale per l’attuazione del programma; l’innovazione, infatti, recepisce la prassi consolidata (e forse meglio la regolamenta) intercorrente fra Governo e Parlamento. Mi pare una conquista definitiva la nuova norma costituzionale, non di intento ma di processo, per cui le leggi che stabiliranno le modalità di elezione delle Camere, dovranno promuovere l’equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza (e lo stesso vale per le elezioni dei Consigli Regionali).

Penso, tuttavia, come ho avuto modo di esprimere nel corso di incontri pubblici o politici, che la vera domanda cui dobbiamo rispondere è dove ci condurrà questa riforma costituzionale. Al di là delle soluzioni adottate nel progetto di riforma, che pur condivido, la risposta a questa domanda è stata determinante nel volgermi al si.

La storia della Prima e della Seconda Repubblica, ci consegna un Parlamento che tenta di rappresentare il pluralismo partitico. La formazione degli esecutivi, anche di quelli tecnici, è avvenuto per accordo e soprattutto veti intercorso e proposti fra le varie forze politiche. Questa genesi ha determinato scelte politiche sovente timide o fragili. L’instabilità dei Governi e la scarsa capacità di agire “con sguardo lungo” e conseguentemente decidere, non hanno creato le migliori condizioni per lo sviluppo economico e la crescita di una nuove generazioni imprenditoriali. Perennemente in regime di emergenza ed eccezionalità, sovente queste scelte i nostri rappresentanti non le hanno generate, attenti ad un accampato “ben altro”, lasciando perennemente con un senso di incompiuto e provvisorio il cittadino. Quest’ultimo, via a via si è trovato sempre più lontano dai propri rappresentanti e da quei corpi intermedi, incapace di farsi ascoltare da coloro che lo avevano rappresentato nel recente passato (partiti o sindacati che fossero).

Anche per questo penso che occorra superare l’idea che via sia democrazia solo quando vi sia la plastica rappresentazione del pluralismo politico (dove il Parlamento è frontaliero rispetto al Governo) per accogliere la formula, penso parimenti democratica, che vede la minoranza controllare ed opporsi alle scelte di una maggioranza e del suo Esecutivo. La riforma si muove verso una democrazia maggioritaria, contraddistinta dalla capacità di dotare il paese di Governi stabili, con processi legislativi di maggior linearità ed efficacia, con rappresentanti responsabili dinnanzi al corpo elettorale della formulazione di programmi prima delle elezioni e della loro realizzazione, ove premiati dal voto. Penso che possa e debba essere superata la visione di una democrazia cui deve essere circoscritto e limitato, con ogni strumento, l’esercizio del potere nel timore che esso prevarichi; penso che la nostra democrazia sia matura e pronta ad affidare all’Esecutivo una controllata capacità decisionale.

La riforma costituzionale si muove in questa direzione e penso che la Costituzione che nascerà, ove approvata, dalla riforma possa veramente dar vita ad una fase positiva della nostra vita repubblicana.

si

Lo spazio e le ragioni di una nuova Sinistra – A. Reichlin

T9GF95R5DK144

Lo scopo di questa assemblea è ridefinire lo spazio e le ragioni di una forza rinnovata della sinistra.

Ma diciamolo chiaro: ciò significa fare i conti non solo con il “rottamatore” ma con i grandissimi problemi irrisolti del Paese e che minacciano tutt’ora la sua vita democratica, il suo livello di vita, la sua sovranità. In una parola, il suo destino. C’è un grande spazio vuoto, davanti a noi. Occupiamolo.

Non nego affatto l’importanza cruciale che ha una lotta parlamentare per cambiare in meglio la legge elettorale. Vedo benissimo i danni e i pericoli che derivano da certe tendenze personalistiche e autoritarie. Ma io sento il bisogno di collocare tutto questo in un contesto e in un orizzonte più largo. E’ tempo di avere una visione più chiara delle forze reali in campo. Il problema della democrazia italiana si misura non solo su questa o quella regola costituzionale da far rispettare (anche, certamente). Ma, stiamo attenti. Siamo a un passaggio storico. Sono in discussione gli assetti sociali e la natura dei poteri di fatto: i cinesi si sono comprati anche la Pirelli e l’industria italiana va scomparendo. Insomma, è con le reali classi dirigenti che bisogna cominciare a fare i conti: cosa che da molti anni non facciamo. Questa è la sinistra. Smettiamola di dividerci tra “duri” e “molli”.

Insomma: come si cambia l’Italia? C’è bisogno di qualcosa di più di un emendamento a un programma di governo. Sento la necessità di una svolta. Intendendo con ciò un’iniziativa in grado di far fronte a qualcosa di analogo alla famosa “crisi di fine secolo”. Il 1901. Quando anche allora la sorte di quello che era il giovane Stato italiano si trovò di fronte a un bivio: ripiegare su un assetto autoritario monarchico, il cosiddetto “ritorno allo Statuto” (albertino) oppure mettere da parte i generali, smetterla di affrontare la nascente “questione sociale” a cannonate e imboccare decisamente la via di una democrazia parlamentare moderna. Fu l’avvento di Giolitti. Egli andò al governo e procedette subito con il riconoscimento dei sindacati, l’intesa con Turati, la neutralità dello Stato e della polizia nei conflitti sociali. Non fu una rivoluzione bolscevica. Ma l’Italia “cambiò verso”: in pochi anni ci fu la creazione del “triangolo industriale”, la Banca mista, la nazionalizzazione delle ferrovie, le assicurazioni generali, ecc. Poco dopo venne il suffragio universale.

Anche adesso l’Italia ha bisogno di “cambiare verso”. Ha ragione Matteo Renzi.

Solo che lui non mi sembra in grado di farlo. Il punto è questo. Sta qui il ruolo della sinistra del PD. Ma da dove ripartire? Io credo che la posizione più forte è pur sempre quella di ripartire dall’Italia. Da ciò che costituisce – in questo difficile passaggio storico – il suo problema vitale, decisivo. Tutti chiedono una svolta, ma di che natura e rispetto a che cosa?

Io penso che si tratti di ripensare il tipo di sviluppo dell’organismo nazionale, e non parlo solo di alcune strutture fondamentali, ma dello Stato inteso anche come il nostro modo di stare insieme tra lombardi e siciliani. Un problema -io penso- che non viene dopo (e quindi mai) rispetto alla pur necessaria riforma del sistema elettorale. Ma insieme. Un “punto a capo”. Non una rivoluzione bolscevica, per carità, ma -l’ho già detto- qualcosa di analogo alla “svolta” del 1901. La novità e le cause non di breve periodo della crisi della democrazia.
E’ con la grandezza di un grandissimo problema nazionale che la sinistra di oggi non è riuscita a misurarsi. Parlo del passaggio di 20-30 anni fa quando furono le sfide del nuovo mondo che spazzarono via i grandi partiti della Prima Repubblica. I giudici vennero dopo e compirono l’opera. E l’inizio del ristagno e della riduzione del nostro apparato produttivo che è cominciato allora, ben prima della crisi mondiale. E ciò per tante ragioni internazionali che sappiamo. Ma prendendo coscienza del peso decisivo che ha avuto l’accettazione anche da parte della sinistra del “pensiero unico”, la corsa spensierata non tanto verso le privatizzazioni quanto verso la marginalizzazione delle funzioni dirigenti del Pubblico (non parlo solo dello Stato). Il tutto in nome di una fiducia illusoria nel mercato. Siamo diventati liberali. Il paese affidava a noi un potere enorme: dai comuni alle regioni al governo, tutto o quasi. Ma abbiamo smantellato la “economia mista”. Eppure si è visto che l’Italia è nata ed è una “economia mista” e che non è in grado di rispondere alla sfida cruciale dell’innovazione e del nuovo salto tecnologico e antropologico senza un ridisegno dei suoi fondamentali a cominciare dal modo in cui si formano il potere e l’accumulazione. Non si va da nessuna parte se non si parte dalla formazione e dalla condizione giovanile. Se non si mette in campo una nuova idea della funzione del Pubblico e quindi se non si difende la qualità del lavoro. E soprattutto se non si avvia una stagione politica ispirata all’idea che la scelta di fondo per la ricostruzione non è un “uomo solo al comando” ma un grande patto per l’inclusione sociale; il quale non escluda affatto l’impresa produttiva. E senza una consapevolezza di che cos’è l’Europa come vincolo non solo economico ma politico.
Questo è il grande limite di Renzi. E’ questo “cambiare verso” che lui non vuole o non sa fare. Aggiungiamo a tutto questo gli effetti davvero devastanti, materiali e morali del decennio berlusconiano. E in più il degrado della politica, lo spettacolo indecoroso della vita parlamentare che appare ormai agli italiani come un luogo di schiamazzi inconcludenti. Ci rendiamo conto allora di quale vuoto politico e morale si è creato negli anni.

Un vuoto enorme, senza precedenti, certo non riempito da esperienze deludenti come quelle dei “tecnici” alla Monti. Come può una forza di sinistra ritrovare un suo cammino se non riesce a creare una connessione sentimentale e politica profonda con questo popolo reso così scettico e smarrito per le ragioni accennate e che da anni assiste alle lotte intestine di una sinistra che si limita a gestire l’esistente? Se, insomma, non avanziamo una risposta finalmente seria rispetto all’attuale stato delle cose? Insisto. Non è possibile ritrovare un’egemonia se non partiamo dal fatto che il paese percepisce che questa non è una crisi come tante altre. La gente capisce che l’Italia vive in una sorta di “stato d’eccezione”. Avverte che siamo al rischio di cedimento di strutture fondamentali della reale “costituency”. E quindi che possiamo non riuscire più a rifinanziare il debito pubblico, nè a governare il crescente divario economico ma anche civile e culturale tra il Nord e il Mezzogiorno. Si rende conto che diventa difficile rimanere nel gruppo di testa dei paesi più avanzati se lo sfilacciamento delle strutture pubbliche, sia amministrative che giudiziarie, è tale da non combattere ma alimentare la corruzione, il metodo mafioso, il sopruso impunito, il peso delle rendite. Noi non andiamo lontano se non interpretiamo noi il bisogno di “un punto a capo”. E’ inutile dividersi tra duri e molli. La situazione è quella che è.

Il paese è in condizioni tali da non sopportare rotture del fragile equilibrio democratico pena il rischio di pericolose avventure. Eppure una svolta è più che mai necessaria e questo tema va posto in tutta la sua grandezza. E’ in questa situazione che si apre lo spazio per una sinistra nuova. Ma la condizione è che essa smetta di dividersi ed elabori una proposta politica chiaramente di tipo ricostruttivo, concreta, socialmente inclusiva e su una linea aperta, di centro-sinistra. Contro l’oligarchia corrotta che ci governa da sempre. Non bastano gli emendamenti. Al cuore di tutto ci deve essere un messaggio alto di valori rivolto soprattutto ai giovani, la capacità di rappresentare nuove aspirazioni. Del resto non invento niente. Quando mai una forza nuova di sinistra si è affermata se anche prima di essere diventata una matura forza di governo non si è palesata come un movimento reale nella società e come l’affacciarsi di una nuova cultura? Le idee contano. Tiriamole fuori.

Alfredo Reichlin
Roma, 21 marzo ‘015

Una riforma di Sinistra?

Una riforma di Sinistra?

diariodiundemocratico

Il Jobs Act è arrivato al traguardo venerdì scorso. Il Consiglio dei Ministri ha approvato, infatti, i primi quattro decreti attuativi della riforma del lavoro, l’approdo di un percorso iniziato poco meno di un anno fa e passato attraverso lotte sociali e sindacali, soprattutto riguardo le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La delega più importante tra le quattro esercitate dall’esecutivo, indubbiamente, è quella che riguarda i contratti di lavoro, con le modifiche all’applicazione delle normative sul licenziamento, sui futuri contratti, e le novità in fatto di ammortizzatori sociali. In particolare è stata l’attuazione del contratto a tutele crescenti ad aver suscitato l’interesse dell’opinione pubblica e l’accoglienza entusiastica di Confindustria. Una riforma di sinistra ha detto il nostro segretario/premier, riferendosi al contratto a tutele crescenti, che contribuirà, peraltro, ad incrementare i posti di lavoro. Fermo restando che i posti di lavoro, come ha fatto notare il presidente dei giovani…

View original post 218 altre parole

Una nuova avventura

#amici #viaggio #compagni

diariodiundemocratico

Oggi inizia questa nuova avventura.

Ho deciso di chiamare il mio blog “diariodiundemocratico” perché, in primis, sarà il diario, appunto, di bordo di un uomo che, nonostante tutto, crede ancora che la politica debba perseguire il bene comune dando attuazione ai principi e i valori costituzionali, primo fra tutti l’uguaglianza, e tutelando le fasce più deboli della popolazione.

E perché, come accennato nel mia bio, sono un iscritto al Partito Democratico che, tuttavia, vorrei che fosse diverso, specie sui territori, da come è adesso.

Vorrei un Pd più inclusivo dove tutti i militanti e gli elettori si potessero sentire a casa.

Dove ognuno potesse contribuire alla vita di questa grande comunità sentendosi libero di poter esprimere le proprie idee e proposte senza sentirsi apostrofare con la parola “frenatore” o altro.

Vorrei Un Pd che coinvolgesse gli iscritti e i militanti non solo una volta ogni 4 anni per l’elezione del…

View original post 161 altre parole

Jobs Act – appunti a margine

 

L’ISTAT la scorsa settimana ha pubblicato l’ultimo bollettino di guerra sul fronte occupazione.

Il dato è il peggiore dall’inizio della crisi (su dato trimestrale bisogna ritornare al 1977). Tra i giovani che lo cercano, i senza lavoro sono al 42,4%: 690 mila persone. Il 2013 è peggiore della crisi: mezzo milione di occupati in meno. I disoccupati, nella media del 2013, hanno raggiunto quota 3,1 milioni con un aumento del 13,4% rispetto al 2012; quasi la metà dei disoccupati risiede nel Mezzogiorno (un milione 450 mila). L’anno scorso il tasso medio di disoccupazione è arrivato al 12,2%. Era al 10,7% l’anno precedente. Tra le diverse tipologie di lavoro, anche quello precario, definito dall’Istat come atipico, nella media del 2013 è tornato a scendere (Fonte ISTAT http://www.istat.it/it/archivio/disoccupati).

Siamo in presenza di un debole segno positivo del nostro PIL,per la prima volta dopo nove trimestri (Fonte ISTAT http://www.istat.it/it/archivio/114138). Nel 2013 il PIL ha regiostrato una riduzione dello 0,4% rispetto al 2012  (in volume il PIL è diminuito dell’1,9%).

Ma gli effetti non si riversano in campo occupazionale, né avrebbero potuto farlo con tanta immediatezza, recuperando un po’ delle forze lavoro disperse nel tempo.

Il Presidente del Consiglio ha reagito con prontezza, annunciando misure shock e rilanciando l’intervento, forse più organico, del Jobs Act. Sono convinto che il provvedimento dovrà porsi come essenziale, una delle principali riforme, una delle determinanti per la ripresa della produttività del Paese.

Mi permetto alcune riflessioni sulla natura e sul contenuto del provvedimento, di cui, sino ad ora, si hanno avuti solo cenni di indirizzo, mediamente un elenco di buone intenzioni.

Perché abbia “fiato per correre” questo provvedimento dovrà avere adeguate nonché certe coperture finanziarie; diversamente non avremo misure ed interventi strutturali, ma provvedimenti di breve periodo e, dunque, di scarsa incisività. Il risultato sarà peggiore del semplice mancato risultato.

Penso all’indennità o assegno di disoccupazione (destinato a chi perde il posto di lavoro) anche nella nuova formula dell’ASPI del ministro Fornero; e penso alla dimunzione del costo di lavoro (con relativo innalzamento del potere d’acquisto delle buste paga) che sono certo punti qualificanti del Jobs Act, ma sono misure per qualche miliardo di euro.

Vi è una spinta a rimodulare gli ammortizzatori sociali, a partire dalla Cassa Integrazione.

A mio parere, l’attenzione andrebbe posta, innanzitutto, sulla Cassa Integrazione Straordinaria che non può più essere un modo surrettizio di sostentamento ad imprese ormai non più produttive.

La CIG in deroga, in questo periodo di crisi, garantisce il tessuto imprenditoriale composto da piccole aziende, che offrono lavoro ma sono anche le prime a risentire della grave crisi economica; nutro dubbi sull’adeguatezza delle misure proposte in sostituzione dal Ministro Fornero (ASPI) e forse occorrerebbe puntare ad un maggior impegno economico da parte del Fondo Sociale Europeo.

Il Jobs Act sarebbe l’occasione buona per riportare alla luce, due documenti, travolti dalle vicende politiche, ossia:

– lo Statuto del Lavoro Autonomo (per chi abbia voglia di leggere vi rimando ahttp://www.partitodemocratico.it/doc/208316/per-uno-statuto-del-lavoro-autonomo.htm) un impegno normativo verso il mondo degli imprenditori e dei liberi professionisti (ed altre categorie);

– il Contratto Unico di Inserimento Formativo, già oggetto di una valida proposta a prima firma dell’On. Marianna Madia (leggete qui http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/39921.htm). Certo saranno opportuni accorgimenti e modifiche, già proposte, quali la premialità all’imprenditore che assume a tempo indeterminato al termine del periodo di prova; le garanzie economiche per il lavoratore licenziato prima del termine della prova. Ma la vera innovazione sarebbe la progressiva sostituzione di questo strumento di formazione lavorativa alla varie forme di lavoro precario (con progressiva disincentivazione).

Concordo con chi pensa che il mercato del lavoro venga rivitalizzato non solo introducendo o cambiando regole, ma creando investi-menti produttivi. Certo occorrerà meglio favorire l’accessibilità alle risorse immateriali, rendere competitivo e concorrenziale il mercato dell’energia, rinnovare le politiche del credito a favore delle attività produttive, incentivare fiscalmente l’innovazione e la ricerca.

Ancor di più concordo con chi, in questo momento di forte scomposizione economica, ritiene che si debba inserire le cose di cui ho brevemente accennato prima, in una cornice più ampia, una nuova politica industriale nella quale, non solo le regole ma anche il rapporto e le relazioni fra lo Stato, le leve finanziarie, la classe imprenditoriale, le parti sociali e il mercato, vengono ripensate e rifondate nel contesto europeo.

La politica al tempo di Renzi, il Sindaco

di Franco Donnini

Ho assistito, come immagino molti di voi, al primo discorso di Matteo Renzi al Senato della Repubblica. Il discorso con il quale il presidente del Consiglio si presenta alle Camere per chiedere la fiducia sul programma di governo. Devo ammettere che mi aspettavo molto di più, sia in termini di contenuti politici che di qualità dell’approccio all’Aula.

La scelta del presidente Renzi di parlare sostanzialmente a braccio se da un lato ha comunicato un messaggio di autenticità, sicurezza e cambiamento (probabilmente quello che voleva trasmettere a casa), dall’altro lo ha portato a commettere errori di comunicazione dal mio punto di vista grossolani, perdonabili solo con l’attenuante dell’esordio.

Quella che nelle sue intenzioni doveva essere percepita appunto come sicurezza, è scivolata senza controllo nella più irritante sicumera. lo slittamento di percezione è stato netto e ha raggiunto l’apice con la inutile e irrispettosa provocazione rivolta ai parlamentari del M5s. Renzi ha usato tutto il corpo per comunicare il suo messaggio, a tratti strizzandolo per far uscire il condensato del contenuto politico che stava comunicando, altre volte accennando dei lievi saltelli sulle punte dei piedi come a voler spingere verso l’alto, accentandoli, alcuni passaggi dell’intervento da lui ritenuti importanti. I destinatari del suo discorso erano lì, davanti a lui, difronte al banco del governo.

Ma in realtà i destinatari che Renzi aveva in mente erano i milioni di italiani che lo stavano seguendo da casa. E’ a loro che il neo presidente del Consiglio ha parlato con quella sua retorica da venditore di prodotti a domicilio. Una retorica sciatta, sopra le righe e a tratti anche fastidiosamente falsa e ammiccante. Una retorica da comizio più che da discorso programmatico. Accentata da una comunicazione non verbale irrispettosa: quel far scivolare ripetutamente le mani in tasca ha prodotto nei destinatari l’immagine di un uomo arrogante, spavaldo e presuntuoso.

Spesso nel corso del suo lungo intervento ha rischiato di essere la macchietta del politico. Il contrario, presumo, di ciò che avrebbe voluto si percepisse di lui. I continui riferimenti alla vita delle persone reali se fatti una volta ogni tanto funzionano anche, ma l’abuso ne depotenzia fortemente l’efficacia perché ne riduce la credibilità. Infine il ricorso alla locuzione “la madre di tutte le battaglie” o “la madre di tutti i problemi” et similia: pessima scelta linguistica e pessimo richiamo simbolico (ricordo che la locuzione fu usata per la prima volta dal dittatore iracheno Saddam Hussein per mettere paura agli americani, era il 1991).

Se Matteo Renzi voleva creare un nuovo e personale frame comunicativo intorno alla figura del presidente del Consiglio dei Ministri, destrutturando la carica dal rigido e paludato stile dei suoi predecessori, doveva farlo con maggiore rigore e meno spavalderia. Tuttavia, al netto delle considerazioni fatte, Renzi oggi ha prodotto il framing su cui lavoreranno i media e si concentreranno i cittadini nelle prossime settimane e mesi. “Il framing opera lasciando nelle informazioni lacune che il pubblico riempie con i propri schemi preconcetti: è un processo interpretativo che si svolge nella mente umana in base a idee e sentimenti correlati immagazzinati nella memoria” [Manuel Castels].

Ci siamo (come un sasso nella scarpa)

Immagine

Dopo un pò di tempo ritorno a scrivere del nostro Partito.
Ci ritorno sull’onda delle riflessioni che mi ha creato l’invito di uno fra i principali sostenitori della mozione astigiana che ha sostenuto il nostro segretario Renzi.
L’invito nasce come replica ad una dichiarazione di Pippo Civati, provocatoria nel sostenere il proprio dissenso sino alle estreme consegue delle dimissioni.
La questione viene posta in questi termini: il congresso ha sancito la linea (come la definisce, in modo molto vetero, l’amico renziano); io e molti altri rappresentiamo minoranze che non condividono, non importa se tutto o in parte, questa linea; dovremmo prendere atto che il Partito non è più la nostra casa e, dunque, accasarci altrove (SEL cui siamo affini).
Il sillogismo viene spinto ancora più in là da un rappresentante dei vertici del Partito astigiano: la minoranza che protesta sino a questi punti è “fronda”, posizione che garantisce nessuna rendita (politica). Comincio da quest’ultima considerazione, che mi pare maggiormente degna di una riflessione. (continua a leggere, cliccando qui)